Perché i dipendenti lasciano l’azienda
Prima di tutto, scusateci. Scusateci per il titolo di questo articolo. Si tratta di una semplificazione obbligata, ma parzialmente inesatta. Perché non è vero che i dipendenti lasciano l’azienda. Quello che fanno, semmai, è lasciare i manager. O l’ambiente di lavoro. O i colleghi. O ogni altro aspetto (cosa o persona) di cui è composto il proprio lavoro, che solo per comodità definiamo “azienda”. Ma i dipendenti non lasciano l’azienda. Anzi, a dirla tutta le aziende che vengono lasciate sono spesso le prime vittime di questi abbandoni.
Addii che per la stragrande maggioranza dei casi hanno una sola origine: lo stress al lavoro. E quindi, forse, a pensarci bene, il titolo migliore per questo articolo sarebbe stato: “come riconoscere lo stress al lavoro ed evitare che i dipendenti lascino l’azienda”.
Attenzione ai rapporti con manager e colleghi
A fornirci qualche informazione in più sul perché i dipendenti lasciano l’azienda, comunque, sono stati i risultati di una ricerca apparsi tempo fa sulle colonne della rivista Psychoneuroendocrinology.
Secondo il team di ricercatori olandesi che ha condotto lo studio, a causare livelli eccessivi di turnover sarebbe sostanzialmente un fattore:
- il pessimo rapporto con manager e colleghi
Basterebbe questo, secondo l’indagine, a incidere negativamente sulla salute psico-fisica dei collaboratori e a spingerli a guardarsi intorno alla ricerca di un nuovo lavoro.
A questa conclusione i ricercatori sono giunti mettendo appunto in relazione gli indicatori fisiologici e quelli psicologici dello stress. Due fattori da sempre oggetto delle attenzioni di chi si occupa di salute e qualità delle prestazioni sul luogo di lavoro.
La ricerca: così lo stress cronico causa turnover aziendale
Un lavoro pessimo è sopportabile, un pessimo capo (o pessimi colleghi), no. Sono queste, in termini evidentemente non scientifici, la conclusioni a cui sono giunti gli esperti olandesi.
In particolare, confrontando i livelli di cortisolo (l’ormone dello stress) di oltre novanta professionisti impegnati in una settimana di lavoro ordinaria, con quelli di un altro gruppo di lavoratori, esposti per lo stesso tempo a un maggiore impegno in ufficio (più carichi di lavoro, maggiore permanenza oltre l’orario di uscita), è emerso che il rapporto tra attività svolta e mancato riconoscimento dei meriti incide molto più negativamente sui soggetti che hanno lavorato di più e per più tempo dei loro colleghi.
In altre parole: investire energie per un lungo periodo, senza sentirsi in alcun modo gratificati, fa impennare il livello di cortisolo e aumenta le possibilità di contrarre una forma di stress cronico sul posto di lavoro.
I mille volti della gratificazione in azienda
“Senza sentirsi in alcun modo gratificati”, abbiamo appena detto. Vale allora la pena riflettere su cosa gratifica un collaboratore. Al riguardo la ricerca olandese non ci illumina, ma l’esperienza sì.
Sappiamo, per esempio, quali sono gli strumenti nelle disponibilità del manager per esprimere soddisfazione verso un proprio dipendente. Tra questi:
- uno stipendio adeguato
- un’azienda sensibile ai bisogni del singolo collaboratore
- la possibilità di comporre il proprio pacchetto di benefit
- flessibilità sui tempi e i modi di lavoro
- piani di carriera equi e facilmente accessibili
Ma evidentemente tutto questo non basta. E a dircelo è proprio la ricerca. Che alla voce “gratificazione” rimanda al lato umano che si cela dietro la faccenda. E pone l’accento anche su altri aspetti, tutt’altro che materiali. Come ad esempio:
- contare sul rispetto del proprio manager
- avere gratificazioni di tipo personale
- avvertire il supporto e la stima dei colleghi
- riconoscere inclusione e apertura in azienda
- riscontrare corrispondenza tra aspettative e realtà
- contare su manager in grado di gestire ambienti competitivi o tossici
Quando la delusione si trasforma in patologia
Insomma, per la prima volta non ci si limita a parlare di semplice malcontento. Dietro la frustrazione per un’aspettativa mal riposta lo studio colloca, anzi, una vero e proprio rischio patologico per il collaboratore.
Raggiunto il quale, il passo verso altre aziende – no: verso altri manager che sappiano riconoscere l’abnegazione e i sacrifici di un loro dipendente, e soprattutto che sappiano come tutelarli e valorizzarli – è davvero molto breve.
Si correda così di un’altra tessera il puzzle delle responsabilità che compone il manager quattro punto zero: dopo la rinnovata veste del decisionismo e le nuove frontiere della motivazione, ecco ora emergere anche l’importanza del monitoraggio costante delle aspettative dei collaboratori.
E per chiunque pensasse di sottrarsi a questa sfida, il rischio è la perdita di attrattività in un mercato del lavoro sempre più orientato al candidato. Un posto nel quale saranno i talenti a scegliere la migliore destinazione per le proprie competenze. E in cui toccherà ai manager, semmai, fare i conti con lo stress da aspettative mal riposte.
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