Il tuo lavoro serve davvero a qualcosa? Come sopravvivere nell'era dei "bullshit jobs"

«E tu, cos’è che fai nella vita?» Se questa domanda vi terrorizza, perché mentre ve la rivolgono già prefigurate i minuti che la seguiranno - un misto di inglesismi e incomprensioni a catena, sorrisetti di circostanza e imbarazzi mal dissimulati - è molto probabile che facciate parte pure voi dei tanti “lavoratori senza senso” sparsi un po’ qua un po’ là per il mondo.

Come si finisca in questa sub-categoria di professionisti, prodotto degli effetti della globalizzazione sul mercato del lavoro, è abbastanza semplice da spiegare. Una sola cosa serve per essere del clan: un bullshit job. Ovvero “un lavoro senza senso”, appunto. Oppure, se preferite, « un lavoro senza alcuna utilità sociale né soddisfazione personale », per usare direttamente la formula offerta da chi quell’espressione l’ha inventata da zero: l’antropologo americano David Graeber.

Una definizione usata prima in un articolo, poi in un saggio (tradotto anche in Italia nel 2018 da Garzanti), con la quale Graeber è riuscito in un colpo solo, con le parole (e le parolacce) giuste, a descrivere noi e il nostro rapporto con certi lavori di recentissima comparsa. Ma anche, forse, a metterci in guardia sui tanti modi in cui, nel XXI Secolo, sia ancora possibile ammalarsi di lavoro. E qualche volta, in una maniera clamorosamente subdola. Ma andiamo con ordine.

E se ordine deve essere, s’impone allora da subito un distinguo. Perché un bullshit job non è, come potrebbe sembrare in apparenza, il classico “lavoro del cavolo”. Intendiamoci, quelli ci sono ancora, ci sono da sempre e sempre faranno parte del mercato del lavoro. Hanno superato indenni secoli di rivoluzioni e due Guerre Mondiali, figurarsi se non resistono pure alle spintarelle degli algoritmi del capitalismo globale. Da che esiste il lavoro, esistono lavori di serie A e lavori di serie B (e C, e D, e così via, fino alla Z). Lavori mal pagati, considerati inutili, quando non addirittura tossici per chi li esercita. Veri e propri lavori del cavolo, insomma.

Con il termine bullshit jobs, invece, è finita sotto accusa tutta un’altra categoria di professioni. Ad essere presi di mira da Graeber, sono piuttosto quei lavori che non soltanto non sono né di seconda né di terza fascia, ma che, anzi, per ironia della sorte, il mercato tende a valorizzare molto più degli altri. In pratica, avere un bullshit job, socialmente parlando, “fa figo”. Il problema, semmai, ammesso che ce ne si renda conto, nasce con se stessi. Ha a che fare con la propria soggettività. E con quanto ci si senta utili - per sé e per gli altri - alla fine di una giornata di lavoro.

Mettiamola così: servire junk food alle tre di notte in una qualsiasi catena di ristorazione può essere un lavoro del cavolo, ma non rientra nella casistica dei bullshit jobs. Un web project manager di una grande agenzia pubblicitaria, invece, ha tutti i requisiti per farlo.

Abbattere polli allevati in batteria non è un bullshit job, è forse solo il più del cavolo tra i lavori del cavolo; essere un functional safety project leader, al contrario, ha tutta l’aria di essere l’esempio perfetto di ciò che Graeber intende per bullshit job.

Chiara ora la differenza tra un bullshit job e un lavoro del cavolo? La prova del nove è di solito questa: se il tuo lavoro non è illustrabile in un libro, o se tua nonna o tuo nipote di 6 anni non riescono a capirlo al primo colpo, e bè, allora c’è poco da fare: il tuo impiego ha in sé i geni dei bullshit jobs.

Un altro modo per sapere se questo virus abbia infettato anche la propria professione è rispondere francamente alla domanda: se smettessi all’improvviso di fare quello che faccio, se ne accorgerebbe qualcuno? Un lavoratore senza senso conosce già la risposta. Ed è No.

Ma allora, se ne parliamo in questi termini, perché ce li scegliamo questi bullshit jobs?

Le risposte a questa domanda possono essere diverse; e ognuna, a modo suo, c’entra con ciò che si ambisce a essere. E - soprattutto - a diventare. C’è infatti chi sceglie un bullshit job per la “social validation” che ne deriva; intesa come ottenimento (o mantenimento) di un certo status quo. Chi lo fa per il semplice prestigio della posizione cui dà accesso. Possibile pure che ci sia chi ritiene i bullshit jobs tutto sommato una benedizione, per via dell’iniezione di fiducia che comunque infondono all’economia globale. C’è chi, pur rendendosi conto di avere tra le mani un bullshit job, non lo molla per paura di non riuscire poi a trovare qualcosa di adeguato alle proprie aspettative. E pazienza se alla fine di ogni giornata, di tangibile, in mano, resti davvero poco o niente. Ma c’è anche chi non si rende nemmeno conto di esserci dentro fino al collo, in un bullshit job. E forse, tra tutti, sono quelli a cui va meglio.

C’è infine chi lo fa solo per un onestissimo tornaconto economico. Perché attorno allo stipendio (di solito già abbastanza cospicuo) ruota tutto un ecosistema di vantaggi mica da ridere: mensa, permessi premio, vacanze pagate, vari benefits, premi occasionali. E poi l‘ambiente di lavoro, il rapporto coi colleghi, il clima in azienda. Tutti fattori che possono giocare alla perfezione il ruolo di anestetico rispetto alla vacuità del bullshit job in sé.

Quello che però a molti sembra sfuggire, è che, trattandosi di “mercato del lavoro”, a ogni cosa, poi, corrisponde un prezzo da pagare. E il prezzo per i bullshit jobs consiste in tutta una serie di piccole e grandi patologie legate alla sfera professionale. Disturbi che intaccano il sistema nervoso e incidono direttamente sulla qualità della vita delle persone. Oltre che sulla stabilità psicofisica dell’individuo che dovesse trovarsi in una situazione simile.

Ne sanno qualcosa quei professionisti che ci sono passati. Uomini e donne che hanno confermato le teorie di Graeber mollando i rispettivi bullshit jobs al manifestarsi dei primi disturbi, o solo dopo essersela vista davvero brutta. Aurore Le Bihan, su Arte Radio, ha raccontato la sua esperienza di bullshit worker e raccolto altre testimonianze come la sua in un podcast (in francese) dal titolo efficacissimo: «Il mio lavoro non serve a niente».

Un racconto dal quale emerge nitida la fotografia di un’intera generazione di professionisti attratta dalle sirene del capitalismo globale come orsi col miele. Forse solo un tantino troppo distratta per riuscire a mettere in conto, insieme ai pregi, anche qualche contrattempo.

E cambiare lavoro, prima che sia troppo tardi.

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