The Gamification: il recruiting e la rivoluzione digitale nella mappa di Baricco
«Space Invaders, nella sua modestia di giochetto per sfaccendati, è una delle prime tracce geologiche di un sisma … Se la rivoluzione digitale ha una spina dorsale, quella può essere assunta come la prima vertebra. Spinge di poco, sotto la pelle del mondo, ma le dita la sentono, gli occhi la vedono. Esiste. È già un inizio».
Con questo passaggio, a una manciata di pagine dall’inizio di The Game, il suo ultimo libro, Alessandro Baricco fotografa l’origine della sua idea di rivoluzione digitale. E colloca un videogioco, Space Invaders, al centro di quel sistema.
Se lì è rappresentata al meglio la forma, il succo dell’intera faccenda sta però da un’altra parte. È contenuto in un passaggio diverso. E arriva dopo soltanto qualche altra pagina. Lo capisci quando spiega cosa vuol dire, cosa comporta pensare a un videogioco (uno qualsiasi) come al fondamento di una rivoluzione che non solo un gioco non è, ma che anzi sta modificando, per davvero e uno alla volta, tutti gli ingranaggi che tengono insieme il mondo. Tutto, il mondo. Non l’Europa, non l’America, che questa rivoluzione se l’è un po’ inventata, non l’Oriente, o il Circolo polare artico. Il mondo. Tutto. Noi. «Space Invaders era un videogioco – scrive Baricco – Non so se intuite le deliziose implicazioni che la cosa suggerisce. Praticamente, un qualche sisma sotterraneo [la rivoluzione digitale, ndr] spacca la crosta delle abitudini dei terrestri e il primo punto in cui lo fa, o almeno uno dei primi, è quell’istante della loro vita in cui si mettono in pantofole, mandano tutto in mona, e si mettono a giocare».
Prosegue chiedendosi se tutto questo sia casuale, lo scrittore. Chi può dirlo. Casuale o no, tuttavia, è un fatto. Come pure un fatto è che di questa mappa della rivoluzione digitale tracciata dall’autore (tra gli altri) de I Barbari, il mercato del lavoro abbia già assorbito il meglio, se così si può dire. E per meglio s’intende quella ostinata tendenza alla leggerezza nel foderare le cose del lavoro. Tradotto: una certa rappresentazione ludica delle faccende professionali (chi offre lavoro), e una espressione disinvolta del proprio talento (chi il lavoro lo cerca).
Basta guardarsi appena un po’ intorno per capire di cosa stiamo parlando.
È sufficiente mettere piede in un’azienda di un certo tipo, con certe precise esigenze di personale, per rendersi conto di cosa stia diventando, e in parte sia già diventato, il processo di recruiting. O almeno la sua componente più “pratica”. Una specie di momento ricreativo per selezionatori e aspiranti contrattualizzati. Nel quale i primi sperimentano forme sempre più coinvolgenti di sfide, e i secondi si mettono comodi e iniziano a svagarsi. Dando sfogo, nel frattempo, già che sono lì, all’intera gamma delle proprie abilità.
Un luna park, insomma, o qualcosa di molto simile. D’altronde mica è un caso se l’hanno chiamata gamification questa inclinazione a trasformare la ricerca di lavoro in gioco, e viceversa. Come non è certamente un caso se da quel varco, quello della gamification, passi al momento la più grande quantità di soluzioni e progetti e iniziative interessanti che le divisioni HR più attrezzate stanno già cogliendo. Per le altre, potete giurarci, sarà solo questione di tempo.
Perché pure attraverso forme differenti, gesti differenti, tempi differenti, questi percorsi affluiscono in fondo tutti verso lo stesso scopo: misurare il talento di una potenziale risorsa in funzione del linguaggio che la mutazione in atto impone, il gioco. La naturalezza del gioco.
Che sia stata la polverosa galassia del lavoro tra i primi settori a intuire la traiettoria delle abitudini dei terrestri, e a trarne un qualche tornaconto, qualcosa infine vorrà pur dire su un sistema che molti già davano per spacciato.