Quando il quiet thriving è comparso per la prima volta sulla scena, molti professionisti delle risorse umane avranno tirato un sospiro di sollievo. Dopo tanto veleno, devono aver pensato, ecco finalmente l’antidoto.
Il “veleno” a cui si fa riferimento è chiaramente quello dei fenomeni che abbiamo imparato a conoscere con il nome di quiet quitting e great resignation. Piaghe che da tempo infestano i discorsi sul people management e turbano pesantemente i sonni delle direzioni HR.
Ma abbiamo una brutta notizia per quei professionisti che possono essersi sentiti sollevati. Lasciare che il quiet thriving risolverà da solo il problema, e che il quiet quitting così com’è arrivato se ne andrà solo perché abbiamo coniato un neologismo da opporgli, è una strategia destinata a fallire in partenza.
In questo articolo proveremo ad analizzare le dinamiche dietro questa nuova tendenza che promette di diventare un autentico game changer per le organizzazioni. Specie in tempi di talent scarcity. Ma tenteremo anche di spiegare perché il quiet thriving ha qualche chance di successo solo se l’HR ci metterà del suo.
Cos’è il quiet thriving
Intanto le definizioni. Ché nel nuovo mercato del lavoro contano almeno quanto i fenomeni che descrivono. Con il quiet thriving, quindi, è importante capire subito di cosa parliamo.
Coniato da Lesley Alderman, psicoterapeuta di Brooklyn, il termine è comparso per la prima volta su un articolo del Washington Post. In italiano, qualsiasi traduzione suonerebbe male. Ma il senso della definizione è abbastanza facile da cogliere.
Perché se abbiamo considerato il quiet quitting come un “abbandono silenzioso” da parte dei collaboratori più in difficoltà, allora possiamo considerare il “quiet thriving” come il suo opposto. La “silenziosa prosperità” che indica la Alderman è dunque quella del collaboratore che prova ad invertire la rotta del suo engagement modificando radicalmente l’approccio al suo lavoro.
D’accordo, ma in che modo? Intraprendendo una serie di azioni specifiche e mettendo in campo piccole, grandi rivoluzioni mentali che dovrebbero aiutarci a prosperare silenziosamente e a sentirci più coinvolti nelle attività e nella vita d’impresa.
Dieci regole per il quiet thriving
E quali sono queste azioni? A suggerircelo è la stessa Alderman nell’interessante riflessione pubblicata sul WP in cui ci invita a prendere in considerazione i meriti del quiet thriving.
Dieci (apparentemente) semplici regole che dovrebbero aiutare i collaboratori a invertire la spirale di malessere e a trovare più gratificante il proprio lavoro. Vediamole insieme.
Le dieci regole per il quiet thriving:
- Difendi le tue ragioni
- Trova un aspetto positivo e coltivalo
- “Crea” il tuo lavoro
- Nutri almeno una relazione speciale al lavoro
- Imposta i tuoi obiettivi personali
- Prendi parte a un gruppo
- Fissa dei limiti
- Spezza la routine con pause piacevoli
- Analizza i tuoi risultati
- Chiedi il supporto di esperti
Quiet thriving: il manuale di Alderman
Ora che abbiamo sotto gli occhi il manuale su cui Alderman ha impostato l’impianto della riflessione sul quiet thriving, proviamo ad analizzare singolarmente ognuna di queste voci.
Cerchiamo di capire, insomma, come passare dalla teoria alla pratica. E facciamolo con l’aiuto della stessa Alderman, che per ogni regola di questo manuale ci ha offerto qualche spunto di riflessione.
1. Difendi le tue ragioni.
Scrive Alderman che sono innegabili i vantaggi per il benessere di quei collaboratori che sentono di poter generare un impatto con il proprio impegno. C’è un aspetto/una intuizione che vogliamo condividere con il nostro manager? Bene, parliamogliene con calma e chiarezza. E se la risposta è negativa, chiediamo di argomentare il no.
2. Trova un aspetto positivo e coltivalo.
E se ci concentrassimo su quanto di buono ci circonda? Siamo troppo focalizzati su ciò che non va, dice Alderman, proviamo a guardare il nostro lavoro partendo da ciò che funziona.
3. “Crea” il tuo lavoro.
Ogni lavoro è fatto di aspetti che sono più piacevoli e di altri che lo sono meno. Aumentiamo il numero dei primi inziando a seguire iniziative (tipo le politiche di DE&I o i temi della sostenibilità) che daranno più valore al nostro tempo in azienda.
4. Nutri almeno una relazione speciale al lavoro.
Molti manager sono convinti che unire piano professionale e piano personale sia un errore. Ma in tempi di quiet quitting, spiega Alderman, questa regola può andare a farsi benedire.
5. Imposta i tuoi obiettivi personali
Se esistono i KPI su cui si misura la nostra produttività, perché non dovrebbero esistere anche indicatori del nostro benessere? L’invito di Alderman è ad impostare questi obiettivi personali con scadenza giornaliera, settimanale o anche mensile.
6. Prendi parte a un gruppo.
Quando ci si sente ai margini, istintivamente si tende a voltare le spalle a tutto. Il suggerimento è a cercare nel gruppo chi la pensa come noi su molti aspetti. Per scoprire, il più delle volte, che ai margini si è in più di quanti non si credeva.
7. Fissa dei limiti.
Nei tempi, nei modi, nelle relazioni. Essere al lavoro non significa essere sempre reperibile. Ogni tanto, ricordiamolo.
8. Spezza la routine con pause piacevoli.
Potrebbe essere il lato B del suggerimento precedente. Qui la “madre” del quiet thriving ci invita a inserire nella nostra giornata lavorativa – sia in ufficio che da remoto – dei micro-piaceri che con il lavoro non hanno nulla a che fare. O forse sì, ma per i benefici.
9. Analizza i tuoi risultati.
Questo serve a due scopi: sentirsi soddisfatti di aver raggiunto piccoli traguardi, sapere su cosa migliorarsi. Ed eventualmente capire come farlo.
10. Chiedi il supporto di esperti
Prima di stabilire che “è il momento di partire”, chiediamo aiuto in azienda. Spesso ci sono colleghi che hanno vissuto il nostro stesso momento. Spesso è la stessa organizzazione a mettere loro a disposizione dei mentor o delle “person of trust” con cui confidarsi.
Il ruolo dell’HR nel quiet thriving
Che si condividano o meno i suggerimenti della Alderman, di questo manuale del quiet thriving è chiaro soprattutto un aspetto. E cioè che senza una strategia a monte della direzione HR i suoi benefici saranno pressoché nulli.
Diventa dunque primordiale per l’organizzazione, che il quiet quitters abbia il sostegno dell’organizzazione per ognuna di queste attività.
Un esempio su tutti. Prendiamo il punto 3: “crea il tuo lavoro”. È chiaro che ogni professionista lo avrebbe già fatto se l’azienda glielo avesse permesso. In questo caso compito dell’HR sarà quello di predisporre una survey interna per testare desideri e bisogni dei collaboratori.
Dalla survey emerge che il 20% delle nostre persone vorrebbe vedere migliorata la sensibilità dell’organizzazione circa i temi della diversità, dell’equità e dell’inclusione? Bene, potrebbe essere utile condividere la proposta di creazione di un nuovo team interno dedicato ad individuare e implementare iniziative a tema DE&I. Aprendone la partecipazione a chiunque. E questo per ognuna delle dieci intuizioni sul quiet thriving proposte dalla Alderman.
Porta i principi del quiet thriving nella tua strategia di ricerca e selezione
In definitiva, possiamo tranquillamente dire che quite thriving è la definizione di un tentativo. Lungi dall’essere la risposta a tutti i mali, e né la Alderman né noi lo pensiamo, c’e’ però qualcosa di buono che le organizzazioni possono portarsi a casa da questa nuova tendenza.
Si perché l’approccio attivo al malessere percepito in tempi di quiet quitting è in fondo l’essenza di una efficace strategia di ricerca e selezione che coniuga i processi del recruitment agli strumenti del marketing. scopri ora i vantaggi della risposta più adeguata ai tuoi bisogni grazie alla nuova soluzione di Monster.