Se esistono termini e concetti coniati dai latini che si sono presi la briga di sopravvivere a qualche conflitto mondiale, affrontando peste e carestie, resistendo perfino alla tentazione di non schiodarsi dal Rinascimento per il solo gusto di venirci a insegnare ancora qualcosa, e beh, il minimo che si possa fare noi ultimi arrivati, senza nemmeno stare troppo su a pensarci, è metterci lì ed ascoltare.
Prendete per esempio Pro bono publico, vale a dire “per il bene della collettività”. Ecco, questo era il modo col quale questi signori, ai quali dobbiamo tra le altre cose i primi prototipi di civiltà organizzata su strutture complesse più o meno quanto le nostre, definivano un principio tanto semplice quanto efficace: offrire le proprie competenze esclusive a beneficio di un interesse più alto. Quello comune.
Inutile dire che coi secoli, la pratica, come buona parte di quelle che ci sono state tramandate, ha assunto sfumature differenti. Sconfinando in ambiti talvolta curiosi, talvolta innovativi. Arrivando perfino a spostare il proprio baricentro dal pubblico al privato, ma sempre conservando il principio dell’interesse più nobile, quello collettivo.
Domanda: d’accordo ma che c’entrano i latini col mondo del lavoro? Risposta: buona domanda. I latini c’entrano perché se non fosse stato per loro oggi un responsabile risorse umane non saprebbe che da questo termine – o, meglio, dalla sua declinazione in ambito professionale: pro bono impresa – passano una quantità pazzesca di opportunità per migliorare il proprio dipartimento HR.
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In un solo concetto, infatti, stanno condensati i pilastri di un eccellente employer branding, di una consumer awareness di grande prestigio e insieme le basi per un recruiting davvero efficace.
Proviamo brevemente a spiegare perché. Intanto, l’adozione di pratiche pro bono in azienda basta da sola a trasmettere all’esterno un’immagine di grande stabilità dell’organizzazione. E allo stesso tempo testimonia tanto efficacemente quanto ogni altra politica di marketing qual è lo spessore etico dell’azienda. Permettendo così al brand di posizionarsi in un livello più alto nella percezione dei propri clienti.
Non bastasse questo, è in ottica employer branding che l’adozione di pratiche pro bono in azienda sprigionano la parte più significativa dei loro effetti. Gli studi più recenti sulla Generazione Z, come quello condotto per MONSTER dall’agenzia TNS solo lo scorso anno, sono lì a confermarlo: al lavoratore di domani le sorti del mondo stanno a cuore tanto quanto quelle del proprio tenore di vita. Basti pensare che il 74% degli intervistati, su un campione di duemila giovani di età compresa tra i 15 e i 20 anni, ha infatti ammesso di credere che il proprio lavoro (e quindi l’organizzazione per la quale lo si esercita) debba avere uno scopo socialmente rilevante – pro bono publico – che non garantire semplicemente un’entrata, pure cospicua, a fine mese.
Una volta chiarito questo, vediamo pure da dove partire. Esempi di ottime pratiche pro bono da inserire in azienda ce ne sono ovunque, e variano a seconda di fattori diversi: dimensioni dell’organizzazione, settore di riferimento, tipologia organizzativa dell’impresa. Dalle iniziative più semplici, come la raccolta fondi tra dipendenti (meglio se abbinata a un progetto di ampio spessore), fino all’organizzazione di open day dove mostrare alla collettività competenze professionali specifiche dei propri dipendenti e buone pratiche organizzative. Dal volontariato personale supportato dall’azienda con mezzi e risorse proprie, fino a quello collettivo. Un esempio? C’è chi nel tempo ha dato alla luce ambiziosi progetti di tutela ambientale.
Ma la lista è molto più lunga e conta, tra gli altri, anche progetti più articolati come piccoli percorsi di formazione per gli studenti del territorio (se l’azienda ha rilevanza nazionale, gli inviti possono essere estesi a tutto il paese di riferimento), o mentoring per neolaureati in cerca di prima occupazione. Fino alla partecipazione, anche a turno, del management alla gestione di vere e proprie organizzazioni no profit.
Insomma, è chiaro: le opportunità del pro bono aziendale sono infinite, ma vanno ragionate bene, e soprattutto colte al volo. Perché la reputazione di un’organizzazione è labile come il tempo. E allora… carpe diem.