A tracciare per primi il loro identikit, provando a mettere ordine a un caos indecifrabile e fino a quel momento pure ingovernato, sono stati gli analisti della Fondazione Rodolfo Debenedetti. Parlare dei lavoratori della gig economy, da queste parti, equivaleva, infatti, prima del loro contributo, a tirare in ballo perlopiù soltanto i “corrieri del cibo”. Ma quella dei gig worker, definizione due punto zero dei nuovi professionisti “a chiamata”, è una galassia assai più complessa di quanto non appaia osservando questi rider in bicicletta o motorino consegnare pasti caldi ordinati su piattaforme digitali.
Una complessità condensata alla perfezione in un dato, tra i tanti raccolti e messi in fila dalla Fondazione Debenedetti. Questo: 1,4%. Ovvero la quota effettiva occupata dai rider nell’intero ecosistema dei gig lavoratori italiani. Che sarebbero “appena” 10mila, stando sempre ai numeri emersi dall’indagine, su un totale stimato di circa 700mila individui. Un risultato al quale si è giunti sommando al dato di quanti vivono di solo gig lavoro, la stima di chi, invece, considera l’indotto digitale come mezzo per garantirsi una ulteriore, per quanto modesta, entrata mensile.
Si dirà: ma se non trasportano pizze a domicilio, tutti gli altri professionisti “on demand”, cosa fanno di preciso? Risposta: di tutto. Che cosa voglia dire, nello specifico, ce lo ha spiegato bene l’Inps. Che nell’ultimo rapporto annuale, lavorando sulle indicazioni raccolte proprio dalla Fondazione Debenedetti, ha contribuito a illuminare le molte zone d’ombra nate attorno (e insieme) a questa nuova categoria di lavoratori.
Tre, nel complesso, le macro categorie con le quali l’istituto di previdenza, nell’auspicio di fotografare il fenomeno nella sua interezza, ha finito per classificare questa faccenda della gig economy: lavoro on-demand tramite app (a cui appartengono, per lo più, i rider); crowdwork (“folle” di professionisti che scambiano prestazioni professionali online); e asset rental.
Tradotto: il fattorino che la domenica sera ci consegna in motorino il sushi a casa non è poi tanto diverso, almeno agli occhi dell’Inps, dall’esperto contabile che arrotonda analizzando bilanci su siti o app. Ma nemmeno dalla babysitter occasionale; dall’addetto alle pulizie; dal traduttore; dal programmatore di software; o dal correttore di bozze ingaggiato, anche lui come tutti gli altri, attraverso l’iscrizione a piattaforme digitali. Chiunque infatti decida di “prestare” una parte del proprio tempo e delle proprie competenze a mansioni di varia natura, per il tramite di datori di lavoro operanti nel web, può a tutti gli effetti considerarsi un gig worker. E a quanto pare non sono pochi, in Italia, al momento, quelli che, per contingenza o per ragioni di mera opportunità, hanno cominciato a farlo.
Un motivo in più per ritenere indispensabili, a mano a mano che il fenomeno prenderà un’ampiezza sempre maggiore, regole ben più chiare e stringenti di quelle attuali.
Come del resto caldeggiato anche dall’istituto di previdenza nazionale. Dove, però, tuttavia, non hanno nascosto un lieve scetticismo rispetto ai tempi. Privi al momento come siamo degli strumenti normativi adeguati, arrivare a stretto giro a una completa regolamentazione del settore, ammoniscono, sarà tutt’altro che una passeggiata. «La tracciabilità di questi nuovi fenomeni è largamente incompleta – scrivono infatti dall’Inps nelle conclusioni sul tema Gig Economy – ed è questa una delle future direzioni di ricerca e approfondimento».
Dopotutto, come ogni nuova terra emersa, reale o solo fittizia, anche questa della gig economy ha bisogno di dotarsi di una sua piccola ma condivisa disciplina. Anni di tribalismo scellerato, consumato sulla pelle di lavoratori senza garanzie né tutele, sarebbe, in assenza di questa legislazione, la sola alternativa al momento ipotizzabile. Ma anche l’unica da scongiurare.