Saper fare ci aiuta ad accettare di non saper fare

Arrivare preparati al colloquio di lavoro significa anche questo: riconoscere le proprie competenze, rinunciando all’idea - assurda - di essere bravi in tutto.

Tra le più grandi menzogne che circolano in Italia attorno al tema della ricerca di lavoro ce n’è una davvero troppo assurda per essere ignorata ancora a lungo. È quella rispetto alla quale un candidato dovrebbe saper fare qualsiasi cosa.
E questo al di là delle competenze richieste nell’offerta per la quale si candida. Secondo questa tesi bizzarra, è un po’ come se al candidato non fosse concessa alcuna sbavatura, non un minimo tentennamento, non una carenza - pure lieve - rispetto a questo o quell’argomento. Tutto dovrebbe essere alla sua portata. O almeno apparire come tale: ogni materia maneggiata con sapienza, ogni concetto padroneggiato con disinvoltura. Ne deriva che, per spuntarla sugli altri e ottenere il posto, chiunque decida di rispondere a un annuncio di lavoro, a un qualsiasi annuncio di lavoro, debba apparire agli occhi del recruiter praticamente impeccabile.

Inutile dire che non può essere così, che si tratta evidentemente di un equivoco colossale, e che essere “il candidato perfetto” - come spesso si dice negli ambienti della ricerca e selezione del personale - non voglia dire essere il migliore in termini assoluti, ma solo quello più adatto a ricoprire un ruolo specifico. Ovvero quello il più “in linea” a svolgere una certa mansione in una certa azienda. Niente meno di questo, ma niente - niente - più di questo.

Si potrà discutere, poi, all’occorrenza, sulla trasversalità delle competenze del candidato, o sulla sua duttilità in generale; ma verrà fatto sempre rispetto a un solo compito. Uno soltanto: quello che l’azienda ricerca sul mercato e per il quale il candidato sarà valutato.

Direte: e c’era bisogno di ribadire una roba del genere con tanta enfasi?
Sì, perché su questo equivoco si è stratificata negli anni una di quelle non verità che ogni giorno intossica i pensieri e incide sull’umore di migliaia di candidati alla ricerca attiva di un lavoro.
Finendo alle volte anche per deviare il corso delle loro scelte professionali.

L’azione negativa esercitata da un equivoco del genere è fin troppo evidente: di fronte a una premessa di questo tipo - saper fare tutto, saperlo fare bene - nessuno, nemmeno il più navigato dei professionisti, si sentirebbe mai a proprio agio.
Figurarsi chi nel mercato del lavoro sta provando a muovere i primi passi.

E allora? Allora bisogna fare pace con l’idea che un recruiter non stia cercando il candidato perfetto, ma il candidato migliore, che è cosa molto, molto diversa. E prima ancora la pace va fatta con un altro aspetto che tende ad essere anche lui troppo sottovalutato: non si può eccellere su tutto.

Per quanto vasta sarà la nostra formazione, o profonda la nostra cultura, o affinato il nostro acume, ci saranno sempre abilità che ci sono precluse, che non ci appartengono neanche alla lontana, che sono destinate ad altri e non a noi.
Concentriamoci perciò da subito su quello che sappiamo fare, e su ciò che sappiamo fare bene: saper fare (qualcosa) ci aiuta ad accettare di non saper fare (tutto).

Sulle colonne di Business Insider, tempo fa, è apparso un articolo piuttosto interessante sul tema. In appena tre consigli, l’autore provava a disinnescare una volta per tutte questa dittatura della perfezione che sonnecchia in ciascuno di noi, ma che è pronta a sabotarci alla prima occasione utile.

Per prima cosa, suggeriva l’articolo, non bisogna mai dare per scontato quello che sappiamo fare. Mai. Neanche le piccole cose di ogni giorno. Anche quelle che ai nostri occhi appaiono più naturali, semplici e ordinarie. Sapete che c’è? Potrebbero non esserlo per tutti. E allora scriviamole, queste cose: vederle messe nero su bianco dovrebbe aiutarci a capire che non ce lo stiamo raccontando bene, il nostro potenziale. E che non è vero che sappiamo fare soltanto quelle quattro cose che crediamo… Non sembra, ma questo è già un gran bel punto di partenza.

In secondo luogo l’articolo si sofferma (e ci invita a riflettere) sul potere, diciamo così, collaterale di queste nostre abilità. Perché potrebbero essere legate ad altre competenze che noi non riusciamo neanche a vedere, ma magari un bravo recruiter sì. Insomma, dal pensare in autonomia sempre a un piano B, all’essere puntuali agli appuntamenti, al riparare gli oggetti rotti, al catalogare ogni cosa ci riguardi, fino al capire in anticipo cosa potrebbe diventare una fonte di tensioni, e quindi intervenire; ognuna di queste abilità può confluire a sua volta in altre abilità. In un gioco di vasi comunicanti che, tenuto insieme dal filo rosso della nostra preparazione, ci mostrerà il saldo preciso del nostro talento. Reale, ma anche potenziale.

Terzo: se al termine dei primi due passaggi una lieve ansia ha cominciato a saturare l’aria della stanza, il consiglio è di non scoraggiarsi (ma questo vale sempre , quando si parla di ricerca di lavoro), piuttosto contattare uno o più amici sinceri e lasciare che siano loro a dirci quali potrebbero essere le nostre abilità. Non i nostri pregi, non il motivo per cui vale la pena essere nostri amici: le nostre abilità, che è un’altra cosa.

E a quel punto, riprendere l’esercizio dall’inizio.

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