Il ragionier Ugo Fantozzi siamo noi

Più che con lui, abbiamo riso di lui. Proiettando su quella sua schiena ricurva pure la sòma delle nostre frustrazioni. Da lontano gli abbiamo puntato il dito contro, ghignando a ogni clamoroso passo falso che gli vedevamo compiere. E così abbiamo tirato avanti: condividendo il sollievo nel sapere che in giro ci fosse qualcuno a cui il lavoro, e un po’ anche la vita, facessero difetto più che a noi.

Quello che c’è sfuggito, però, nel ripetere per anni questo gesto, è che di fronte avevamo uno specchio. Perché questo è stato il ragionier Ugo Fantozzi, maschera comica e penosa prodotta dal genio di Paolo Villaggio : la rappresentazione, appena più grottesca, delle nostre esistenze imperfette.

Di fronte a noi non c’era il nostro collega sfigato, come invece, sbellicandoci, eravamo convinti. Né il vicino di casa incrociato tutti i giorni uscendo o rientrando dall’ufficio. Eravamo noi il ragionier Ugo Fantozzi. Lo eravamo tanti anni fa, quando il mondo del lavoro era la cosa più lontana da ciò che è diventato adesso; ma lo siamo ancora oggi. Anzi, forse lo siamo perfino di più. Clamorosi, totali, tragici Fantozzi contemporanei.

Paolo Villaggio, insomma, ci aveva visto lungo. E quel microcosmo tragicomico fatto di facce servili e un lessico improbabile, megapresidenti galattici, poltrone di pelle umana e craniate pazzesche, alla fine, è arrivato anche da noi. Anzi, è arrivato in noi. Superando concetti come come digitalizzazione e industria 4.0. Il punto è che lo alimentiamo noi, quel mondo. Coi nostri gesti sghembi, le nostre piccole e grandi illusioni professionali, la nostra condizione di ruota qualsiasi del carro.

E se vi state chiedendo di cosa parliamo, parliamo di questa roba qui.

I Job Title spropositati.

In Fantozzi i titoli professionali erano lo strumento perfetto per tirare in ballo il surreale, arricchire le iperbole, farci ridere e al tempo stesso anche un po’ riflettere. Chi non ha mai sorriso d’imbarazzo, dopotutto, davanti al direttore generale che veniva chiamato “Sua santità il sig. dott. ing. grand. uff.”. O il manager di divisione carogna presentato come “Dott. ing. grand. uff. lup. man.”. O quell’altro che tra un “ing.” e un “dott.” vantava anche un “grand. farabutt.”. Erano così i job title fantozziani: mine pronte a esplodere e a farci esplodere. Ma facendo ridere, facevano pure riflettere. Niente a che vedere con quelli di oggi, che invece fanno solo ridere. Non c’è bisogno di esempi: chiunque, nel proprio piccolo, è in contatto sui social professionali con gente dai job title spropositati, tanto quanto il proprio ego. Così assurdi e tragicamente comici che quasi ti verrebbe da chiedere loro: “sì, ma di lavoro, esattamente, che cosa fate?”

Il timore per le gerarchie che sfocia in servilismo.

D’accordo, in Fantozzi si esagerava, e nessuno nella “vita vera” si inchinerebbe mai al passaggio dell’amministratore delegato. Ma basta il tono spudoratamente servilistico di molte delle mail e dei gesti che viaggiano, ogni giorno, da certi uffici a certi altri uffici, per arrendersi all’evidenza che, ancora una volta, Villaggio non sbagliava: Ugo Fantozzi siamo noi. Per carità, il rispetto per le gerarchie è naturale, ci appartiene da quando eravamo organizzati in branchi, vestivamo pelli animali e stavamo per scoprire il fuoco, ma c’è un limite a tutto. O, meglio, dovrebbe esserci un limite. Perché al di là di quella soglia siamo alla caricatura. Alla macchietta. Insomma, siamo a Fantozzi.

Il congiuntivo usato a sproposito

“Batti?” dice Filini a Fantozzi durante una (improbabile) partita di tennis. Risposta di Fantozzi: “Ma Filini, che fa, mi dà del tu?”. L’uso a sproposito del congiuntivo è un altro dei tratti distintivi del ragioniere più famoso d’Italia. E se volessimo trovare il corrispettivo contemporaneo di quella stortura, potremmo certamento farlo parlando di quanto, in tempi di comunicazione informale come questi (forse troppo informale?), nell’epoca delle chat istantanee e delle emoticon usate per esprimere ragionamenti complessi, la nostra comunicazione fatica ancora molto ad adattarsi al contesto. Tanto quanto in quella partita di tennis tra Fantozzi e Filini, abbiamo ancora un problema di comprensione. Da qui l’incapacità di esprimerci, al lavoro, nel modo opportuno. Ovvero a seconda di ciò che la circostanza impone.

Il mancato riconoscimento di capo e colleghi.

In Fantozzi gli unici a sapere il cognome esatto sembrava fossimo noi che lo leggevamo o guardavamo il film. Tutti gli altri, dalla moglie Pina all’amico Filini, dal megadirettore galattico all’usciere dell’azienda, passando per i colleghi - tutti - dell’ufficio sinistri, Fantozzi era una volta “Fantocci”, un’altra “Bambocci”, un’altra “Pupazzi” o perfino “Scagnozzi”. E che cos’era quella roba lì, quel dileggio sistematico dell’identità di questo povero cristo, se non la rappresentazione caricaturale - da perfetta commedia dell’arte - del rapporto di totale sfiducia e disapprovazione che lega ancora oggi certi manager ai propri collaboratori? Quel cognome sbagliato per dileggio è l’ironia spicciola nascosta dietro gli occhi del capo, e di qualche collega, per la nostra umana imperfezione .

I team building che non lo erano.

L’immagine di Fantozzi che monta in sella “alla bersagliera” durante una biciclettata voluta dal manager appassionato di ciclismo. O quella di lui che, in una celebre e infinita sfida a calcio tra colleghi, dopo l’ennesimo incidente surreale, vede sfilare davanti a sé tutti i santi del paradiso. Due episodi tra i tanti che servono a dirci soprattutto una cosa: da ancora prima di Fantozzi in poi, in Italia abbiamo sempre avuto problemi col team building. Non è che l’idea in sé non ci piaccia, è che non sappiamo proprio applicarla. Ci si ostina a organizzare eventi e momenti di condivisione più allo scopo di migliorare la reputazione percepita dell’azienda che non a favorire una reale coesione, una reale evoluzione dei singoli collaboratori. Il risultato? Occasioni che sembrano l’evoluzione fedele della famosa “Coppa Cobram” o del drammatico “big match” tra scapoli e ammogliati.

Tante analogie, insomma, che ci aiutano a capire meglio quanto in realtà il ragionier Ugo Fantozzi fosse lo specchio di tutti quanti noi. Incapaci - chi più, chi meno - di accettare la propria condizione al lavoro senza il filtro di una risata che giustifichi pure qualche lacrima.

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