Una questione di sicurezza: come riconoscere il mobbing e imparare a difendersi.

Ogni imprenditore ha il dovere di offrire ai suoi dipendenti, inclusi i lavoratori in categorie protette, un ambiente di lavoro sicuro. Fine.

Ora prendete la frase che avete appena letto, segnatevela da qualche parte, e tornate a leggerla tutte le volte che avete un dubbio su cos’è, e cosa no, in Italia, il mobbing.

A suggerircela, più o meno una ventina d’anni fa, è stato direttamente il legislatore. Il quale, introducendo anche da noi una prassi fino ad allora riconosciuta e disciplinata per lo più oltre Oceano, all’articolo 2087 del codice di procedura civile chiarisce proprio questa faccenda. State a sentire: l’azienda o l’imprenditore, dice, “è tenuto ad adottare le misure … necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Tutto chiaro? Mettendolo sullo stesso piano di una presa scoperta, un terrazzino pericolante o una grossa infiltrazione d’acqua sul soffitto, il codice civile italiano, pur senza chiamarlo per nome, qualifica il mobbing come una mera questione di sicurezza. Un rischio concreto per l’incolumità. In altre parole, un attentato alla serenità del lavoratore.

Spiegarlo meglio di così, il mobbing, onestamente, è complicato. Dopotutto, cos’è che viene meno se non la sicurezza - quella a 360°, quella intesa dal legislatore con “personalità morale” - quando in un rapporto di lavoro si ravvisano comportamenti sistematici e continuativi di tipo aggressivo e vessatorio condotti nei confronti di un lavoratore?

Ma la “semplificazione”, se così si può dire, operata dal legislatore, non è soltanto opportuna, è anche parecchio utile. E per due ordini di motivi.

Inserendone infatti le conseguenze in una sfera più ampia come quella della sicurezza, da un lato il legislatore già suggerisce quali sono le fattispecie di comportamenti catalogabili come mobbing. Non siamo al sicuro sul posto di lavoro, per esempio, se per opera di un collega o di un superiore riceviamo continue aggressioni verbali, in pubblico o in privato. Non siamo al sicuro quando siamo vittima di calunnie, o semplici provocazioni ironiche o rimproveri verbali di fronte a uno o più colleghi. Non siamo sicuri sul posto di lavoro se siamo esclusi da progetti che, per organizzazione aziendale, spettano al nostro dipartimento. Se veniamo sistematicamente tenuti a margine da ogni comunicazione che conta e che, anche indirettamente, ci riguarda. Se ci demansionano in maniera ripetuta e ingiustificata al solo scopo di spingerci al licenziamento volontario. O se, sotto lo stesso colposo presupposto, diventiamo gli zimbelli dell’azienda perché un manager ha deciso di “usarci” come metro di comparazione negativa tra colleghi.

Una follia, direte. Mica tanto, a giudicare da quanto emerso di recente dalle cronache giudiziarie del tribunale di Milano. Dove, per una causa dei questa stessa natura, al dipendente mobbizzato è stato riconosciuto un risarcimento importante a compensazione del danno morale (appunto) causato dalla condotta vessatoria del proprio manager.

La seconda grande intuizione della norma, si diceva, riguarda invece le responsabilità.

Nel farne una questione di “diritto alla integrità morale” del lavoratore, il legislatore ci indica infatti anche la strada da percorrere in caso di accertata violazione. Che passa per chi, quel diritto, è tenuto a tutelarlo. In una parola: l’azienda.

Qualora infatti il mobbing fosse perpetrato da un collega o da un manager, il primo passo da compiere, nel caso di una multinazionale o in una organizzazione di medie dimensioni, è attivare i protocolli interni di solito previsti in strutture del genere. In questo modo, il datore di lavoro entra ufficialmente a conoscenza dei fatti e potrà egli stesso tutelarsi, accertando le responsabilità degli episodi contestati e prendendo le contromisure del caso. Senza poter accampare, un giorno, davanti a un giudice, il più classico dei “non sapevo”. Nel caso invece in cui il mobbizzatore fosse il capo stesso in persona, o qualcuno in azione sotto sua espressa volontà, alla vittima non resta altra strada che rivolgersi a un legale.

La presenza in questo caso di uno o più testimoni, giacché la più consistente fetta delle cause di mobbing si tiene in piedi sulla base di fatti avvenuti e molto raramente sulla presenza di documenti probatori, resta un requisito chiave ai fini di una schiacciante vittoria in tribunale.

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