Congedo di paternità: se il diritto è prima un dovere
Come una banconota fuori corso, di quelle bellissime e purtroppo inservibili. A questo somiglia, oggi, l’istituto del congedo di paternità. Le disposizioni introdotte con l’ultima riforma del mercato del lavoro, il cosiddetto Job Act, riequilibrano molto i ruoli dei due genitori; ma per una vera equità dei rapporti serve un profondo cambiamento culturale. Ecco perché bisognerebbe iniziare a parlare di diritto-dovere dei padri lavoratori.
Una parola. Non sette, non cinque, non due: una. Basterebbe cambiare una parola per ribaltare in un colpo solo decenni di disparità di genere applicata al mondo del lavoro. Una parola soltanto.
Sarebbe sufficiente, nei ragionamenti e nell’approccio alle politiche del lavoro, sostituirla con un altro termine, di senso opposto ma incisivo più o meno allo stesso modo - uno scambio alla pari, insomma - per liberarsi all’istante di un bel problema. Culturale, prima di tutto.
Lo scenario di partenza
Il problema è quello legato al numero di madri “costrette” ogni anno a lasciare il lavoro perché inconciliabile con i bisogni della famiglia. E sono circa trentamila, secondo e stime diffuse a inizio 2018 dall’ispettorato del lavoro . Vale a dire quasi l’80% del totale delle dimissioni volontarie presentate in Italia nell’arco dei dodici mesi della rilevazione. Ricapitolando:
- 37.738: totale delle dimissioni volontarie presentate in Italia e raccolte nell’indagine;
- 29.879: il numero delle donne “costrette” a lasciare il lavoro nei 12 mesi precedenti;
- 80%: la quota femminile sul totale delle dimissioni volontarie.
E se questi numeri raccontano abbastanza bene l’estensione del fenomeno, la sua gravità va invece rintracciata nelle ragioni offerte dalle (ex) mamme lavoratrici per motivare le loro dimissioni:
- assenza di supporto dai parenti;
- stipendi inadeguati;
- elevati costi di assistenza;
- mancato accoglimento dei figli negli asili nido.
La doppia lezione
Numeri e ragioni che spiegano due cose meglio di tante altre. La prima, è che in Italia l’accudimento della prole, la tenerezza parentale e le faccende domestiche, restano - nel bene e nel male; soprattutto nel male - prerogative quasi esclusivamente femminili. La seconda, è che anche le migliori intenzioni del miglior legislatore del mondo, se espresse in assenza della giusta sensibilità, o prive del giusto contesto culturale tutt’intorno, saranno destinate a tradire i propri scopi. E finiranno, col tempo, per vedersi attribuito al massimo il valore che si riconosce a certe banconote fuori corso: di quelle bellissime, e purtroppo inservibili.
Col congedo di paternità , per esempio, introdotto vent’anni fa e tirato un po’ a lucido nel 2015, con l’ultima riforma del mercato del lavoro (il cosiddetto Job Act), si ha un po’ questa sensazione: qualcosa di molto bello, di potenzialmente utilissimo, ma, di fatto, inefficace. Non perché fuoricorso, nel senso di passato; semmai il contrario: poiché coniato per un’epoca (e una sensibilità) che ancora non ci appartiene.
Il diritto-dovere del padre
Fino a quando, infatti, penseremo al congedo come a un diritto del padre di ritagliarsi anche lui un tempo dal lavoro per assistere i figli, e non, piuttosto, come al suo dovere di affiancare la madre nella complessa gestione della famiglia, avremo in tasca uno strumento di grande valore, e non sapremo utilizzarlo come si deve.
Capito bene? Da diritto a dovere. Solo una parola va cambiata. Non sette, non cinque, non due: una.
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