"Si descriva in tre parole", "Pigro": se in un colloquio l'onestà è la dote migliore da mostrare al recruiter

In un colloquio di lavoro ognuno fa i conti coi propri fantasmi. Così anche le domande che ci si sente rivolgere possono apparire stimolanti o scomode a seconda di quali orecchie le ascoltino. Chiarito questo punto, è però innegabile l’esistenza di una speciale sub-categoria tra i quesiti più insidiosi di una selezione: una sorta di élite degli interrogativi sgraditi che mette d’accordo i candidati di ogni latitudine, e indispone più per lo stato di agitazione che è in grado di provocare che non per la complessità dei quesiti in sé.

Si tratta di quel genere di domande che durante il colloquio introducono il tema dei punti deboli, delle imperfezioni della persona che si sta sottoponendo alla valutazione.

In passato, durante quello che consideriamo il “medioevo” del recruiting, la regina di queste domande sarebbe stata posta durante il colloquio in maniera diretta, secca, forse anche grezza, ma certamente efficace (almeno dal punto di vista del selezionatore): “quali sono a suo avviso le sue maggiori debolezze?” avrebbe chiesto un tempo il recruiter al candidato.

Oggi che le funzioni di HR hanno conosciuto il loro Illuminismo, quella stessa domanda, con quello stesso intento (e quello stesso effetto sulla psiche del candidato), viene invece edulcorata, tradotta in infinite e meno schiette varianti, fino a renderla una domanda all’apparenza innocua. Ma solo all’apparenza. “Mi racconti un suo fallimento” e "in quali aspetti professionali sente di dover migliorare?” sono infatti due tra le tante scorciatoie di cui i recruiter ancora si servono per ottenere di fatto lo stesso obiettivo di chi li ha preceduti in quel ruolo: vale a dire valutare l’onestà, il coraggio, ma soprattutto, l’auto-consapevolezza di chi gli è seduto davanti.

E allora, quale modo migliore per un candidato di guadagnare crediti agli occhi del suo recruiter se non quello di approfittare di questa domanda per giocarsi al meglio la carta della sincerità?

Come ci ha spiegato tempo fa in un post su Medium lo scrittore e professore di psicologia Adam Grant, in un colloquio di lavoro è meglio essere accurati, precisi e onesti, che positivi ad ogni costo.

In uno studio - ha raccontato Grant nel suo post - alcuni ricercatori di Harvard hanno chiesto ai laureandi di rispondere alla domanda di un colloquio di lavoro sulle loro debolezze. Solo il 23% ha fornito delle reali qualità negative: io procrastino; io reagisco in modo eccessivo alle situazioni. L’altro 77% ha nascosto le loro debolezze all'interno di un elogio mascherato: sono troppo gentile; sono troppo esigente quando si parla di rispetto. Ma quando i collaboratori hanno esaminato le risposte - ha concluso Grant - questi erano del 30% più interessati ad assumere i candidati che avevano riconosciuto una reale debolezza”.

Insomma, se si risponde in assoluta onestà durante un colloquio a interrogativi che riguardano le proprie debolezze, è in soldoni il consiglio di Grant, questo può contribuire a “proiettare un senso di sicurezza verso i potenziali datori di lavoro”. In altre parole: anche descrivendosi negativamente, si guadagnano crediti agli occhi del recruiter.

Un principio magistralmente sintetizzato da una vignetta che chiude il post.

- Si descriva in tre parole, chiede il recruiter al candidato. - Pigro, risponde questi.

Ecco, appunto.

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