Elon Musk, i razzi spaziali e quel sacrosanto diritto al fallimento

Di Monster Contributor

Ci voleva un arcimilionario come Elon Musk (come sarebbe a dire chi?) per riaccendere da qualche parte una fiammella che tenevamo spenta da un pezzo e farci riaffermare il nostro sacrosanto diritto al fallimento. Perché è dalla sua compagnia spaziale SpaceX che arriva la più importante lezione sull’errore come elemento cruciale alla base di ogni esperienza.

E come ogni grande monito che la Storia ci impartisce, anche questo ci arriva perfettamente inserito nel contesto dei tempi che attraversiamo. Cioè montato in formato mp4 e ripetuto all’infinito dentro e fuori dai social, fino alla nausea, per effetto di quella singolare attitudine che ci porta ad accorgerci delle cose tutti quanti insieme, più o meno nello stesso frangente, e che qualcuno in stato di grazia, un giorno, ha definito viralità. Da qui, evidentemente, la nausea.

Di che parliamo? Di questo. Cioè del video col quale SpaceX ha raccolto in una manciata di minuti appena i sette anni di tentativi falliti - ovvero dal primo lancio ad oggi - prima di far riatterrare il razzo Falcon 9 perfettamente integro e mantenere così la promessa che da sempre anima l’azienda: permettere il riutilizzo dei razzi e diventare competitiva nel mercato dei lanci spaziali.

Capito cos’ha fatto Musk? È come se Steve Jobs ci avesse fatto entrare nel garage del padre a vedere le martellate di disperazione date sui primi - scarsissimi - prototipi di quello che molti anni dopo sarebbe diventato un iPhone. O, per andare ancora più lontano, se avessimo assistito in diretta alle imprecazioni di Michelangelo davanti al suo Mosè, prima di esclamare il celebre: “perché non parli?”.

Pochi minuti in cui è condensata una quantità sconcertante di esplosioni, pezzi di lamiera disseminati ovunque: in mare, sui prati, vicino a piattaforme mobili d’atterraggio rimaste desolatamente vuote. Niente che a prima analisi sembri anche lontanamente istruttivo. Eppure ha fatto più Musk con questo video in qualche manciata di secondi che decadi e decadi di riforme del sistema scolastico. Perché ha instillato nelle fragili menti di molti di noi il beneficio del dubbio: e se fallire non soltanto fosse possibile, ma se alla fine facesse pure bene? Sbagliando s’impara, ci hanno sempre detto. E allora quand’è che abbiamo cominciato ad avere paura - peggio, vergogna - delle nostre momentanee battute d’arresto? Dei nostri piccoli grandi fallimenti?

Conosciamo l’obiezione: il successo del personaggio da solo inclina al rispetto. Tutti bravi a sbagliare stando nei panni (comodi) di Elon Musk. E se invece fosse proprio questo il paradigma da sovvertire? E se non dovessimo cioè rinunciare all’idea che Musk crede in questo perché è Musk, ma cominciare a pensare che Musk è Musk proprio perché crede in questo? Come la metteremmo?

Perciò, nel dubbio se inserire o meno tra le competenze del proprio curriculum vitae anche la lista dei piccoli o grandi fallimenti che hanno segnato la nostra esperienza, o davanti al dilemma se parlare anche dei propri errori in un colloquio di lavoro, il consiglio che ci sentiamo di offrire è quello di spiegare le vele e lasciare che il vento della Silicon Valley faccia il resto.

Perché è nella terra dove si programma il futuro, dove il numero di imprese che in un anno chiudono e si riconvertono e cambiano strategia è più alto di quello fatto registrare dagli incidenti domestici, che la cultura del fallimento si è da tempo già trasformata in diritto.

E in attesa che quel giorno arrivi anche qui, vale la pena segnarsi un’altra data sul calendario: 13 ottobre, International Day for Failure. Il principio è quello delle terapie di gruppo, ma il cerchio di sedie stavolta è vasto quanto la circonferenza terreste.

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